«le cose non accadono / a quelli che spariscono»

da Le fuggitive, Aragno, 2020


Biobibliografia

Carmen Gallo vive a Napoli. Ha pubblicato tre libri di poesia: Paura degli occhi (L’Arcolaio 2014, finalista Premi Montano e Russo-Mazzacurati), Appartamenti o stanze (D’If, 2016, Premio Castello di Villalta) e Le fuggitive (Aragno 2020), che ha vinto il Premio Napoli 2021. Nel 2019 è stata inclusa nel XIV Quaderno di poesia contemporanea, a cura di F. Buffoni (Marcos y Marcos) e un’ampia selezione delle sue poesie, tradotte in tedesco, è presente nell’antologia Die Maulposaune. Gedichte aus Italien, a cura H. Thill e C. Caradonna (Das Wunderhorn). Come anglista e traduttrice, ha curato Tutto è vero, o Enrico VIII di Shakespeare (Bompiani 2017) e pubblicato il saggio sui poeti metafisici L’altra natura. Eucaristia e poesia nel primo Seicento inglese (ETS 2018). Il suo ultimo lavoro è una nuova traduzione commentata di The Waste Land di T.S. Eliot, intitolata La terra devastata, per il Saggiatore (2021). È nella redazione del blog Le parole e le cose. Ha svolto attività laboratoriali in carcere. Insegna letteratura inglese alla Sapienza Università di Roma.

 


Intervista

1- La parola è parte di un linguaggio conoscitivo e creativo, definisce e scardina. Qual è una parola che ritieni abbia rappresentato la tua esperienza poetica?

Credo di aver cominciato a scrivere poesia nel tentativo di raccontare, descrivere, superare le mie paure. Non per cancellarle, ma per conoscerle meglio. Credo profondamente nel valore conoscitivo della poesia, e della letteratura in generale. Quando leggo poesia o quando vivo un’esperienza estetica, ciò che chiedo è di imparare qualcosa su di me o sul mondo in cui vivo, sull’esperienza dello stare al mondo. Lo stesso vale quando scrivo. Anche dal punto di vista biologico e cognitivo, la paura è un’emozione che ci aiuta a riconoscere i pericoli, a valutare ogni volta le strategie più adatte alla sopravvivenza, e queste includono sia la lotta che la fuga. La paura è stata sin dall’inizio, dal mio primo libro Paura degli occhi, non solo un tema ossessivo, ma anche una forma ritmica – infantile, cantilenante, alienante – che serviva a occultare i materiali biografici e allo stesso a restituire di questi non solo il contenuto, ma l’atmosfera, o addirittura una esperienza sinestetica. Nel tempo, ho provato a lavorare su questo automatismo della mia scrittura, cercando di stabilire un rapporto più trasparente tra forma e contenuto, e forse non è un caso che questo ha permesso l’emergere di un altro tema: quello della fuga, che chiedeva una versificazione meno rigida, un ritmo meno sorvegliato, anche una moltiplicazione della soggettività. In Appartamenti o stanze e soprattutto in Le fuggitive ho per la prima volta mescolato versi e prose, avvicinandomi a una dimensione teatrale dello spazio poetico che mi ha permesso di scardinare quanto vivevo ormai come claustrofobico della postura lirica, e di intraprendere fughe in avanti – spero – nella rappresentazione plurale dell’esperienza e della soggettività.

2- Madri e padri del proprio percorso poetico: qual è il tuo rapporto con la tradizione letteraria e come essa ha influenzato la tua scrittura poetica?

Anche se conoscevo abbastanza i classici della poesia italiana del Novecento, ho iniziato a scrivere versi, consapevolmente, sui banchi dell’università, quando ho incontrato la letteratura inglese. Ho scritto la mia prima poesia leggendo The Waste Land di Eliot. Poi ho iniziato a studiare i poeti metafisici e John Donne. Per molto tempo, la tradizione che mi ha plasmato è stata quella in lingua inglese, soprattutto per quanto riguarda il ritmo (accentuale invece che sillabico). Scrivendo però cose molto diverse da quei modelli, a lungo ho sottovalutato la loro influenza, che è stata forse indiretta ma non meno presente (l’ossessione barocca, la variazione dei registri, la tensione poematica). Ho continuato per anni a leggere soprattutto molti autori e autrici stranieri. L’incontro con Celan è stata un’epifania, ma anche una prova di vocazione: ha messo molto in discussione la mia decisione di scrivere poesia. Ricordo che lo stesso valore ‘epifanico’ hanno avuto Emily Dickinson e Amelia Rosselli: per anni ho avuto l’impressione di non riuscire a incontrarle davvero, poi piano piano la loro complessità si è rivelata con una straordinaria immediatezza. Ho avuto la fortuna di conoscere Mario Benedetti: il suo verso scarno, asciutto, la tensione verticale della sua poesia sono stati a lungo un punto di riferimento per me. Altre figure come Antonella Anedda e Milo De Angelis sono costante oggetto di rilettura. Ci sarebbero sicuramente altri padri e altre madri da menzionare, ma ho anche molti fratelli e sorelle nella poesia con cui dialogo e mi confronto. Lo scambio con loro non è meno importante e decisivo nella mia ricerca.


Questo video è parte del progetto “Una come lei”.