sostando oltre i margini del telo, in un altro fuori campo

da Ghost Track, Zacinto, 2021


Biobibliografia

Marilina Ciaco (Potenza, 1993), laureata in Italianistica all’Università di Bologna, è dottoranda in letteratura italiana contemporanea presso l’Università IULM di Milano, città dove attualmente vive. Il suo progetto di ricerca riguarda i rapporti fra poesia contemporanea e pratiche visuali e installativedalla seconda metà del Novecento a oggi. Fra i suoi interessi: gli sviluppi delle sperimentazioni poetiche contemporanee dalla neoavanguardia alle scritture di ricerca del Duemila, le forme dell’intermedialità, la teoria della poesia e l’integrazione metodologica nello studio della stessa (guardando in particolare ai visual studies e alle scienze cognitive). Ha trascorso un periodo di ricerca presso l’Université Paris 3 Sorbonne Nouvelle e ha partecipato a diversi convegni nazionali e internazionali. È stata selezionata come autrice emergente per RicercaBo 2017 e finalista del Premio Nazionale Elio Pagliarani 2019 con la raccolta inedita Sinapsi. Ha pubblicato Intermezzo e altre sinapsi (Edizioni Volatili, 2020), con illustrazioni di Giuditta Chiaraluce, e Ghost Track (Biblion-Zacinto, 2022, collana “Manufatti poetici”). Suoi testi e articoli di critica sono apparsi su riviste e lit-blog, tra cui Nazione Indiana, Nuovi Argomenti, La Balena Bianca, “La bottega della poesia” di Repubblica, Medium Poesia, Formavera, Poesia del nostro tempo, Anterem.

 


Intervista

1- La parola è parte di un linguaggio conoscitivo e creativo, definisce e scardina. Qual è una parola che ritieni abbia rappresentato la tua esperienza poetica?

Traccia. La parola “traccia” per me rappresenta molto più che una parte del titolo del mio libro, è in qualche modo il segno – sempre ricodificato e precario, trascritto e sovrascritto, più spesso cancellato – che veicola l’insieme di significati che l’esperienza poetica è in grado di condensare. Ciascuna traccia rivela una natura duplice, passiva e attiva, plurale e singolare. Le tracce possono essere molteplici per tipologia, composizione, “intensità”, sono il sintomo di un qualcosa che è accaduto e che ha, letteralmente, lasciato il segno sulla superficie mutevole delle vite degli individui, della storia, di tutto ciò che esiste e che di esse si costituisce. Una traccia è una ferita cicatrizzata, il residuo di una presenza mai del tutto afferrabile poiché nel suo esserci espone una mancanza, la rimozione di un trauma primordiale ovvero il vuoto di un senso ultimo che assedia, in fondo, l’immanenza dell’esistere. Eppure, non vi sarebbe vita senza tracce, e viceversa: testimoniano le percezioni che ci attraversano (visive, uditive, tattili) e che danno forma al nostro essere nel mondo. Di contro, noi stessi siamo creatori di tracce, produttori di presenza, e forse l’atto della poiesis implica proprio questo rovesciamento della ricezione passiva in costruzione consapevole di un “qualcosa” che sia anche tramite di un processo conoscitivo, di una elaborazione dell’esperienza attraverso la forma. Disseminare tracce equivale a disciogliere la singolarità del soggetto, dell’Erlebnis, nella più condivisa Erfahrung della poesia che, come ricordava Giuliano Mesa, è «relazione – non somma, non sistema – di Erlebenisse tra loro simili, vissuti da simili». Ecco, allora, che la singolarità della traccia impressa da ciascuno ha la possibilità di ricongiungersi alla pluralità di tracce che ci circondano. Non è detto, poi, che una tale possibilità vada a buon fine: come ogni possibilità, essa è aperta a qualunque esito, compreso il più disperato scacco. Si tratta, però, di una speranza paradossale che mantiene tuttora viva la pratica della poesia. Anche quando non sappiamo esattamente “cosa” stiamo facendo, siamo accomunati da questo bizzarro conato a “nominare”, a sondare una volta ancora la ferita, riesumare la traccia.

2- Madri e padri del proprio percorso poetico: qual è il tuo rapporto con la tradizione letteraria e come essa ha influenzato la tua scrittura poetica?

Parlando delle poete che sento abbiano influenzato in misura maggiore il mio percorso, il primo nome che mi viene in mente è quello di Amelia Rosselli, unica donna inclusa da Mengaldo nella celeberrima antologia del ’78. La mia vicinanza a Rosselli risiede nella convinzione che anche il vissuto più magmatico, anche la traccia che evitiamo di menzionare in elenco e che pure ci definisce – la nostra Ghost Track – possa in qualche modo coagularsi, raggelarsi, in una forma che sia nitida, solida, rigorosa. Accanto a questo nome vorrei ricordarne almeno altri due, quello di Giulia Niccolai e quello di Patrizia Vicinelli – due grandi sperimentatrici, così eversive nelle scelte stilistiche e nella “postura” (anti) letteraria, ma anche aperte al dialogo fra arti e fra poetiche pur nella loro “separatezza”, come pure ironiche, saggiamente scettiche nella scrittura e nella vita. Donne, persone, vissute nella poesia «per creare dei fuochi che durino» – direi che ci sono riuscite. L’aver nominato tre donne non nega, poi, i modelli letterari “maschili” che hanno segnato la mia formazione e che tuttora emergono nel mio percorso: su tutti Leopardi, Baudelaire, Zanzotto, Celan, la neoavanguardia nei suoi molteplici (e diversi) volti. A prevalere, in tutti questi casi, è stata la potenza espressiva insieme al rigore della visione, la presenza che promana dalla pagina scritta. Non è stato facile prendere immediatamente le giuste distanze dai poeti e dalle poete che ho nominato, soprattutto nei miei primi tentativi di scrittura: posto come assodato che la tradizione letteraria vada attraversata per poi essere superata, è possibile scivolare nel rischio rovinoso del blocco, dell’irretimento di fronte ai “grandi” che ci hanno preceduto. A un certo punto, però, è (fortunatamente) prevalsa la necessità di “esporsi” – come voleva Celan – attraverso la mia voce, e per farlo è stato fondamentale decostruire una serie di mitografie, quella della “grande letteratura” così come quella del Liber, un assoluto ontologico fuori tempo massimo. Oggi preferisco essere “inattuale” in un modo diverso, coltivare la marginalità dell’infraordinario ma anche una certa dose di istinto (che non è ispirazione).


Questo video è parte del progetto “Una come lei”.