«Farsi luce, divenire luce, illuminare l’oscurità»
(Dietro l’occhio, Howphelia, 2021)


BIO-BIOBIBLIOGRAFIA

Giusi Montali (1986) insegnante di yoga e poeta, si è laureata a Bologna con una tesi su Amelia Rosselli e ha conseguito un dottorato presso l’Università di Pavia. È autrice di Fotometria (Prudrock spa, 2013) e di Dietro l’occhio (Howphelia, 2021) e coautrice, assieme a Luca Rizzatello, di Faria (Dot.com Press, 2016). Alcuni suoi testi sono antologizzati nel secondo volume di Poeti italiani nati negli anni ’80 e ’90, a cura di Giulia Martini. Ha collaborato con la rivista cartacea ‘Le voci della Luna’ e collabora con la rivista online ‘Ibridamenti’. È stata nella giuria del ‘Premio Anna Osti’ e in quella di ‘Bologna in Lettere’. Ha organizzato reading presso diversi locali di Bologna e ha curato assieme a Luca Rizzatello la rassegna poetica ‘Precipitati e Composti’. È coautrice assieme a Martina Campi del format di poesia ‘formula_truepoetry’.

INTERVISTA

1. La parola, parte di un linguaggio conoscitivo e creativo, definisce e scardina. Qual è la parola che ritieni abbia rappresentato la tua esperienza poetica?
“Visione. Che cosa vedo io e che cosa vedi tu? Che cosa osservo all’interno della visione catturata dagli occhi e rielaborata dalla mente? Ad esempio, se io noto il colore dei narcisi e tu che mi cammini al fianco osservi le nuvole che scorrono nel cielo, stiamo forse vedendo la stessa cosa? Che cosa scegliamo di vedere e che cosa no, e perché? È voluto, consapevole, razionale, oppure ci sono altre motivazioni che ci sfuggono e che non riusciamo a sondare? Ciò che scelgo di rappresentare in un testo poetico è il risultato di ciò che ho scelto di vedere e di ciò che ho osservato a occhi aperti e chiusi. È forse per questo che, in qualche modo, la disposizione grafica del testo poetico è sempre stata una mia ossessione. Spesso ho dovuto verificare come ciò che stavo scrivendo sarebbe risultato sulla pagina. E il risultato finale è nato dalla somma di necessità grafiche e visive e dal ritmo che volevo imprimere al testo. La cura rivolta alla disposizione grafica del testo e il succedersi dei suoni ha per me qualcosa dell’ikebana. Vi è infatti una tensione all’ordine; un piacere di composizione architettonica; la ricerca di un procedere che dia al gesto, alla parola, al suono e al significato una bellezza di accostamenti che sia percepita necessaria (laddove ogni gesto artistico non è mai necessario perché si muove nella meravigliosa dimensione del surplus, della sovrastruttura, della gratuità). Tuttavia, non è una bellezza meramente estetica che voglio raggiungere bensì quel passaggio di energia, una sottile comunicazione averbale – sembra quasi una boutade occupandomi di poesia – come se ciò che ricercassi fosse l’energia del suono e il suo modularsi, il ritmo e poi tutto ciò che le parole possono evocare, convogliando la partecipazione di tutti i sensi (che per me non sono soltanto i canonici cinque perché a essi aggiungerei il senso corporeo, mentale, cinestetico e infine quello del tempo). Così come davanti alla visione di un luogo naturale che ci fa sentire a casa, pur ricordandoci la nostra finitezza e transitorietà, percepiamo non solo il nostro piccolo io ma anche il nostro
appartenere a qualcosa di molto più grande. Ed è proprio in momenti simili che ci sentiamo viv3, e per me una poesia ben riuscita ci dona una scossa energetica vivificante. Nelle mie intenzioni un testo poetico dovrebbe essere quindi portatore di una visione vivificante, anche dolorosa o angosciata (la vita è appunto costituita di luci e ombre); dovrebbe anche restituire come una fotografia istantanea il momento preciso della visione (intessuta non solo del dato visivo ma di tutto ciò che stavamo percependo e vivendo in quel momento). In sanscrito le scuole filosofiche (che non sono separate dalle condotte di vita) si chiamano ‘darshana’, visioni. E queste filosofie, essendo appunto condotte di vita, vengono costantemente messe alla prova, rielaborate e, in un qualche modo, adattate dal singolo individuo che non è un’entità statica e immutabile ma un essere in cammino e perfettibile. Forse è questo che voglio restituire: la visione di un sé in cammino ed evoluzione con arresti, sospensioni, ritorni indietro, ma anche balzi, illuminazioni e momenti di corrispondenza. Infine, se si scorrono i titoli dei miei libri si noterà come su tre, quattro – se si considera la raccolta al momento inedita – tre abbiano a che fare con il dato visivo più o meno direttamente (fotometria, dietro l’occhio, albore), per non parlare dell’occorrenza di termini che possono essere ricondotti alla sfera semantica della visione (occhi, vista interna, luce, buio, ombra, oscurità). Credo quindi che la visione sia una mia ossessione e ancora non ho smesso di indagarla”.

2. Madri e padri del proprio percorso poetico: qual è il tuo rapporto con la tradizione letteraria e come ha influenzato la tua scrittura poetica?
“Non mi piace parlare di padri e madri, anche se riconosco il valore della tradizione poetica. Credo che, a un certo punto, un autore non debba trovare delle affiliazioni ma una sua autonomia. Più che di padri e madri vorrei allora parlare di reti e incontri, di comunanza di idee ma anche di scontri e opposizioni. Da giovanissima, l’incontro con la poesia di Edoardo Sanguineti e di Amelia Rosselli, ma anche con l’apparente facile musicalità di Giorgio Caproni, mi hanno avvicinata a modi per me allora impensabili di scrivere poesia. Poi altro incontro rivelatore è stato quello con Vittorio Reta e con il suo appropriarsi, ai limiti quasi del furto, dei versi altrui come se fossero cellule di una più ampia architettura da lui fantasiosamente creata. Dei suoi testi ho sempre invidiato la grande forza energetica. Ma poi devo necessariamente allargare il campo e introdurre accanto alle prose poetiche di Francis Ponge anche narratori: di certo Marcel Proust con la sua ‘Ricerca del tempo perduto’; Georges Perec con ‘Un uomo che dorme’; ‘La montagna incantata’ di Thomas Mann; Roberto Calasso con ‘Ardore’; Alice Ceresa con ‘Bambine’, ‘La morte del padre’ e ‘La figlia prodiga’; Goliarda Sapienza con ‘L’arte della gioia’ e ‘Lettera aperta’; Fabrizia Ramondino con ‘Althénopis’; e infine Clarice Lispector con ‘La passione secondo G.H’. Non credo che sia casuale che scritture non poetiche siano così importanti per il mio percorso: spesso la mia scrittura è originata e mossa da alcune immagini che mi ossessionano e frequentemente le ho ritrovate al di fuori dei testi poetici.
Credo che sia vivificante il confronto con i lavori in corso di altri autori, sia coetanei che di generazioni vicine: è incredibile come a volte si creino consonanze particolari che in qualche modo rivelano l’epoca che stiamo attraversando e l’ambiente che ci attornia. Ma fondamentali sono anche le opposizioni e le idiosincrasie che ci permettono di comprendere come non vogliamo scrivere e quali toni non ci appartengono. Così sono fiera di essere uscita da un provincialismo cieco e privo di stimoli nel quale non conoscevo nessunə che come me scriveva quando finalmente ho deciso di trasferirmi a Bologna e lì ho incontrato tant3 che avevano la mia stessa passione. La stagione, seppur breve, dei ‘ComPari’ è stata una palestra poetica che ha attivato un dialogo con coetane3 particolarmente stimolante e mi ha permesso di uscire dal silenzio. Ecco, penso che più che di tradizione intesa in senso accademico, museale e morto, si dovrebbe parlare di una rete viva di riconoscimento e scelta di appartenenza. Ad esempio, se nelle poesie di Gaspara Stampa individuo una sensibilità e un ardore simili a quelli che mi attraversano e che attivano un senso di familiarità, è giusto che io riconosca in lei la mia tradizione. Ma non così se invece mi sento indotta a scomodare Petrarca, signore del canone poetico europeo, quando invece riconoscerei in Cavalcanti una similissima sensibilità che mi porta a far parlare le cose. Voglio dire con questo che si dovrebbe avere il coraggio della propria personalità e non sentirsi invece in dovere di imitare la voce di qualcun altrə, o di indicare padri e madri dove non ci sono effettivi legami di consanguineità poetica”.


Questo video è parte del progetto “Una come lei”.