«dove siamo senza corpo accucciati»

da Tutti gli occhi che ho aperto, Marcos y Marcos, 2020.


Biobibliografia

Franca Mancinelli è autrice di quattro libri di poesia: Mala kruna (Manni, 2007 – premio opera prima Laudomia Bonanni e Giuseppe Giusti), Pasta madre (con una nota di Milo De Angelis, Nino Aragno, 2013 – premio Alpi Apuane, Carducci, Ceppo-giovani), Libretto di transito (Amos Edizioni, 2018), e Tutti gli occhi che ho aperto (Marcos y Marcos, 2020 – premio Europa in versi 2021). Una silloge di suoi testi è compresa in Nuovi poeti italiani 6 (Einaudi, 2012) e con introduzione di Antonella Anedda, nel Tredicesimo quaderno italiano di poesia contemporanea (Marcos y Marcos, 2017).

Fa parte del progetto promosso dall’Unione Europea, Versopolis. Traduzioni di suoi testi sono apparse su riviste e antologie straniere. Ha partecipato ad alcuni progetti internazionali, tra cui Chair Poet in Residence (Calcutta, 2019) e Refest – Images and Words on Refugee Routes (2018) da cui è nato Taccuino croato, ora in Come tradurre la neve (AnimaMundi, 2019). Con traduzione inglese di John Taylor sono usciti per The Bitter Oleander Press (Fayetteville, New York), The Little Book of Passage (2018) – traduzione di Libretto di transito – At an Hour’s Sleep from Here: Poems (2007-2019), una raccolta dei suoi primi due libri con alcuni inediti. Di prossima uscita per lo stesso editore un libro di prose inedito in Italia, The Butterfly Cemetery. Selected Prose (2008-2021). 


Intervista

1- La parola è parte di un linguaggio conoscitivo e creativo, definisce e scardina. Qual è una parola che ritieni abbia rappresentato la tua esperienza poetica?

Forse potrebbe essere “custodia”. È una parola che rappresenta per me ciò che siamo nel nostro transito terrestre, anche inconsapevolmente, con il nostro corpo: custodiamo acqua, cellule, energia, suoni, emozioni, esperienze e, come donne, possibilità di generare un’altra vita. Custodia è anche ciò che siamo chiamati a essere, come artisti, come esseri umani che possono compiere azioni creatrici, azioni in cui si deposita un significato che travalica i confini di una singola esistenza, di un’identità biografica, e continua a rigenerarsi, trasformandosi a contatto con altre esistenze, con altri corpi. Quando una parola è creatrice, torna all’origine, nell’infanzia dell’umanità e della nostra vita, e si fa gesto, poiein, azione da cui inizia il mondo, da cui il mondo può rinascere, può essere salvato. Come in una sequenza che amo molto del film Nostalghia di Tarkovskij: l’attraversamento della vasca di Bagno Vignoni mantenendo la fiamma della candela accesa. Ciò che dobbiamo custodire è ciò che c’è di più fragile –il fondamento della vita stessa–, e che per questo richiede la nostra più grande capacità di attenzione e di cura. Bisogna proteggere con un palmo della mano la fiamma, e avanzare in ascolto di ogni passo; basta un minimo soffio di vento per spegnerla. Allora bisogna tornare indietro, accendere di nuovo la candela, ricominciare dal primo passo. Questa sequenza cinematografica contiene in sé tutto ciò che è necessario sapere sul fare creativo: la tenacia e l’umiltà per affrontare le forze contrarie, attraversare il fallimento, anche più volte, e tornare all’inizio; la dedizione totale al compito assegnato; l’annullare se stessi nella necessità di essere tramiti, convogliando tutta la propria presenza per fare del proprio agire una custodia. E poi il sacrificio; non è possibile custodire senza sacrificare. In Nostalghia infatti, proprio mentre la candela accesa raggiunge l’altro lato della vasca, illuminando il destino del mondo che viene così salvato, Gorčakov, il poeta russo che ha portato a termine questo compito, muore. Chi custodisce dona interamente la propria vita. Ma il sacrificio è compreso anche nell’atto stesso di custodire: per portare in salvo ciò che c’è di più prezioso, dobbiamo abbandonare tutto il resto. È una legge interna al fare poesia, dove ogni parola, ogni immagine che entra nel ritmo, porta in sé in qualche modo tutte le innumerevoli altre rimaste nel silenzio: se nomino una foglia, in quella foglia vivono tutte le altre del bosco, di ogni bosco; se nomino un frammento della mia giornata, risuona in tutte le altre trascorse nell’oblio. La parola che plasmiamo nella materia della lingua fino a che non si fa poiein, è una custodia, un’arca: ogni cosa che entra salva se stessa e tutte le altre, perché ha la possibilità di rifondare il mondo. 

Chi scrive è sostanzialmente un custode di una certa intensità e quantità di silenzio. Un silenzio apparente, che risuona, come la cavità di un vaso d’argilla. Le parole arrivano quando il silenzio è colmo e trabocca: si versa (dal latino vertere, volgere, il cui participio passato, versus, è all’origine del termine “verso”). Un verso è quindi qualcosa che è volto, che giunge a una fine per ricominciare: inverte la direzione della fine verso un nuovo inizio. La poesia ha questo grande insegnamento da trasmettere attraverso la materia della lingua: niente ha fine, se non per principiare. Per questo c’è un importante potenziale trasformativo nell’esperienza poetica, nell’incontro con una voce che ci raggiunge da una pagina oppure direttamente dalle cose – quella voce può portare un altro nome oppure il nostro, non c’è alcuna differenza: come autori siamo lettori e traduttori della realtà, come lettori siamo autori a nostra volta di parole che, senza il nostro ascolto, senza la custodia del nostro corpo, sarebbero rimaste lettera morta. Ed è per questo che penso alla poesia come alla nostra lingua madre: nell’incontro con la parola poetica veniamo in contatto con una forza che si prende cura di noi; mentre ci disperiamo di fronte alle perdite, alle morti, come neonati di fronte alla temporanea scomparsa del volto più caro, la poesia ci culla nel suo ritmo, ci riporta nella corrente della vita, dove ogni fine è inizio. 

Anche per Pasolini l’atto creativo è connesso alla possibilità di custodire, come scrive nella sceneggiatura di Teorema: «Nessuno deve sapere che un segno riesce bene per caso… per caso e tremando. E che appena un segno si presenta riuscito bene per miracolo, bisogna subito proteggerlo, custodirlo, come in una teca». E Franco Fortini in Composita solvantur, il suo libro testamentario, riconosce in una guardia notturna che chiama «custode», una presenza a cui affidare «l’esito, il residuo», la verità della propria esistenza, la voce che lo “consola ad ogni morte”. 

La parola custodia richiama anche l’immagine di una protezione esercitata da una forza celeste, da un angelo. Nel mio libro recente, Tutti gli occhi che ho aperto, ho legato questa immagine agli alberi, nostri maestri, esempi di come radicarci nella terra e nel cielo e farci tramiti di queste due dimensioni; oltre che guide e punti di riferimento, gli alberi sono anche nostri custodi – questa percezione antica possiamo provarla ogni volta che restiamo seduti sotto la chioma di un albero, o che camminiamo in una foresta, tra arcate verdi da cui filtra il cielo, protetti come quando si resta sott’acqua. Da questa esperienza è nata la poesia che conclude la sezione Alberi maestri:

 

entro nella pioggia come in un bosco 

–ali fittamente intessute 

aperte e richiuse sotto la scorza. 

Cammino, la nuca protetta 

dai miei custodi, liberato lo sguardo 

dalla gabbia degli occhi.

2- Madri e padri del proprio percorso poetico: qual è il tuo rapporto con la tradizione letteraria e come essa ha influenzato la tua scrittura poetica?

Insieme al cibo, all’acqua e al sonno, l’ascolto delle voci della nostra tradizione è un’esigenza biologica, fondamentale. In Mala kruna, il mio primo libro, c’è una breve poesia che contiene l’immagine di ciò che ha rappresentato per me negli anni dell’adolescenza e ancora oggi, l’esperienza della lettura: la possibilità di vivere tra due dimensioni in cui si può entrare e uscire, allontanarsi e fare ritorno, come un anfibio; e la possibilità di attingere a una maggiore quantità di ossigeno, come uscendo da una stretta, dai limiti della nostra esistenza. 


leggo stesa, il libro sul torace 

è il mio terzo polmone 

che s’apre e si richiude. 

Come un anfibio stavo sulla sponda. 

Leggere distesi, su un prato, a letto, sulla spiaggia, è forse uno dei più grandi piaceri e privilegi che possiamo avere in questa esistenza. Liberi dalla tensione dello studio e dalle direttive della volontà, possiamo entrare in un ascolto più nitido, in cui la voce entra in noi, proprio come in una trasfusione, in un processo di metamorfosi da cui ci risvegliamo, come dopo un’operazione chirurgica, con un organo trapiantato. Questo organo in più che possiamo avere grazie alla lettura, questo «terzo polmone», è un ampliamento di vita, una riserva di forza a cui possiamo accedere nella nostra quotidianità. 

–spezzata la custodia

della nascita, niente 

altro che filamenti buoni al fuoco.

 

sepoltura. E inizio. 

Sono invasata. Vivo in custodia 

della terra, a mani immerse                                

come radici lavorando.


Questo video è parte del progetto “Una come lei”.